Ero vivo, sentivo il vento in faccia e nei capelli, il sole bruciava e tutto era splendente, troppo splendente e correva veloce sotto le mie ruote. Mentre ci superavamo le nostre traiettorie mi ricordavano le braccia di mia zia in cucina che impastavano acqua e farina e tutti stasera avremmo mangiato focaccie e panzerotti fritti; e poi le braccia di mia nonna che sciacquavano, sbattevano e giravano con scosse e movimenti secchi e veloci, secchi e veloci il bucato sulla tavoletta e quel ritmo non dava respiro, non c'era possibilità per lei di sbagliare, non perdeva un battito,e poi accelerava, e il bucato si faceva sempre più bianco e pulito. Il mio sguardo sugli alberi secolari delle campagne che fanno un muro di verde continuo ai bordi della stradina, solo a volte bucato da quelle palle arancioni e gialle che sono i loro frutti dolci e insieme leggermente aspri; le due ruote che sbattono sull'asfalto gonfiato dalle radici che gli scorrono sotto che cercano di distruggerlo con la loro forza vegetale, ma riescono solo a deformarlo formando piccoli dossi fanno quel rumore sbam sbam che mi fa ripensare al coltello che sbatte sul legno dopo aver attraversato e tagliato a metà l'anguria fresca sul bordo del fiume da mio padre. E tutto capita continuamente contemporaneamente sempre e dappertutto fin nel minimo dettaglio sotto il sole sulla terra e tutt'intorno e io dovevo essere lì per godermi la mia periferia di mondo e correre e ricordare e senza rendermene conto dare un'importanza fondamentale e dignità assoluta a cose che ero abituato a vedere e che scambiavo per cose banali, ad ogni minimo mutare delle cose, alle loro interazioni reciproche, ai gesti delle braccia di mia zia, di mia nonna, al coltello di mio padre e all'anguria.
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