Sei già altrove. "L'infinito" di Leopardi e l'antirazzismo.

Piace sempre qualcosa che non si ha, ma anche qualcosa che non si è, piace sempre "l'altro", qualcosa che non si conosce o non si possiede a pieno ma che c'è, lontano, oltre l'orizzonte fisico e culturale: altrove ne è pieno, come "dietro un colle" a cui siamo troppo affezionati per poterci allontanare; o che in realtà ci costringe a rimanere al di qua, dove abbiamo stabilito la nostra sede da secoli o millenni...
Il pensiero colmerà sempre quel vuoto (anche della conoscenza) ipotizzando un mondo uguale al nostro, illudendosi, perché il mondo non è mai così come lo ipotizziamo: ne sappiamo sempre troppo poco, non possiamo arrivarci, il mondo è grande e vario. Siamo attratti da quel vuoto che non conosciamo, non vediamo mai direttamente, ma sappiamo che c'è. Questa attrazione rende "belle" le cose che non abbiamo direttamente sotto lo sguardo, a cui non siamo abituati, che non possediamo materialmente né astrattamente.
Così è bella una poesia se non ci si sofferma molto a leggerla e studiarla, analizzarla.

Ogni cosa bella rimane tale se non la si conosce-comprende-possiede a fondo.

Una ragazza la amiamo veramente quando è vestita, non nuda. Lei può essere bella in entrambi i modi.
Quando ci aspettiamo che faccia qualcosa, ma non possiamo prevedere il suo comportamento.
Quando rimane qualcosa che non sappiamo né vediamo direttamente di lei.
Quando non la conosciamo ancora del tutto e ci piace scoprire suoi nuovi comportamenti e reazioni, e vogliamo ancora conoscerla, «e alla fine in realtà quindi non desideriamo quella persona, visto che non sappiamo neanche chi è, ma desideriamo tutti i nostri desideri» (Ugo Cornia). In caso contrario si ricorre a un metaforico incesto con la madre: amare qualcuno di cui si sa tutto, che non può cambiare e che ci ama incondizionatamente, che siamo abituati ad avere attorno.

Un incesto sociale: odiare il diverso significa che un individuo chiude ogni sua disponibilità a crescere e imparare, si rintana nel tanto sognato o mitico passato sicuro della tradizione, della propria cultura, della propria società. La paura per il diverso la si può spiegare come strategia per la conservazione della cultura. Di un singolo sistema culturale; ma ogni cultura si costruisce intorno a questa tendenza presuntuosa, etnocentrica.
In realtà la cultura è un bagaglio di esperienze sedimentate nei millenni, in periodi di fioritura come di stasi culturale, si è aperta e si è richiusa in continuazione; spinte in avanti, rotture e normalizzazioni cicliche...

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Non può che rimanere caro questo colle immaginario che ci separa dal resto del mondo, che limita il nostro mondo. E quella misteriosa attrazione verso l'ignoto? Come spiegarcela se non come una voce portata dal vento? Una voce che ci annuncia che c'è altro, mondi impensabili. Una meraviglia ancora da scoprire. Da qui il rischio, la paura di allontanarsi dal solito piccolo mondo, di non essere adatti ad altro. Il rischio lo si affronta sfidando e sbugiardando le proprie paure, o assecondandole e rimanendo dove si è, inesperti del mondo, a vagheggiare di esso ma sostanzialmente temendolo, allontanandosi dalla vita del presente.

In fondo, fare esperienza dell'altro - proveniente dall'altrove - non può che farci crescere e scoprire altre parti di noi che non erano mai venute fuori. Allarghiamo il nostro (inevitabile) limite conoscitivo a quello degli altri, per far nascere sistemi, insiemi di cose meravigliose e ancora sconosciute: nuove frontiere. Nuove forme di umani. Nuove verità.

Non solo, serve affermare la convinzione di non sapere ancora tutto, di non aver visto, sperimentato, conosciuto ancora tutto per mettere in moto dentro di sé il "proprio" divenire: crescere in un percorso coerente verso la Verità. Il non conosciuto stimola l'immaginazione, il ragionamento, la capacità di adattamento: l'intelligenza, l'apertura dell'intelligenza. Stimola l'azione, la volontà di azione e l'amore verso sé stessi e verso gli altri e il mondo. La stupida presunzione di conoscere già tutto così "edipica" e infantile, viceversa, chiude ogni contatto tra individuo e mondo. Ma è così cara...

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25 aprile

Sangue a terra il tuo colato vaporato sì ch'entri nelle vene verdi ancora negli eccidi nuovi  come un seme da nessuno piantato.